Un anno fa, prendendo parte al dibattito di presentazione del protocollo fiorentino per le udienze, avevo sottolineato come l’iniziativa si ponesse nel solco dell’orientamento, che gli Osservatorii hanno contribuito a far maturare e diffondere, secondo cui alla giustizia non servono soltanto buone leggi, mezzi adeguati e strutture efficienti, ma serve anche una forte capacità di autoriforma.
Oggi, guardando al titolo del convegno (“Un anno di lavoro. Dal protocollo per le udienze al protocollo per il giudizio”) mi sembra di dover sottolineare non solo il cammino che, in così breve tempo, è stato compiuto, ma anche ciò che lungo il percorso si è venuto delineando, in modo sempre più esplicito e chiaro, come un vero e proprio progetto, l’alternativa ai progetti che mancano:
si sono moltiplicati gli Osservatori, a testimonianza di quanto sia forte l’idea di una giurisdizione come frutto di elaborazione collettiva, di comuni interessi e di convergenti aspirazioni;
si è diffuso il costume dei “protocolli” e, cioè, di un insieme di regole e intese in cui si manifesta la spinta a riportare allo scoperto le zone d’ombra del processo, quelle in cui, per inerzia o per distacco o per passività culturale o convenienza burocratica o per incapacità di comunicazione, deperisce i valori della giurisdizione e finiscono per annegare le stesse potenzialità racchiuse in ogni operatore professionale. I “protocolli” sono infatti, prima di ogni cosa, il tentativo di contrastare l’indifferenza, di costruire un tessuto di solidarietà intorno al processo e di ripristinarne la funzione come luogo di dialogo e di contraddittorio in cui si realizza per ogni cittadino che ritenga di avere subito un torto il diritto ad essere ascoltato e ad esprimere direttamente avanti al giudice le proprie ragioni;
anche per effetto di tutto questo, l’esperienza giuridica è stata positivamente influenzata ed è stata impressa la spinta verso una nuova cultura organizzativa. |